“Fosse vivo Rodotà”: editoriale di Marco Travaglio Pubblicato su 8 Apr 2018 da infosannio.

Schermata del 2018-04-08 13-08-30

(di Marco Travaglio da Il Fatto Quotidiano del 8 Aprile 2018) – I giornali e i siti di ieri (e credo anche di oggi) sembrano il Fatto di un mese fa. Noi l’avevamo scritto fin da subito dopo le elezioni (anzi, per la verità da ben prima), mentre tutti gli altri davano per sicuro il governo Salvini-Di Maio: l’unica combinazione di governo possibile nel nostro sistema proporzionale e tripolare, per quanto complicatissima per divergenze programmatiche, ripicche identitarie e rancori reciproci, è quella fra i 5Stelle e il centrosinistra (Pd+LeU). Lo era già cinque anni fa e Bersani l’aveva capito. Ma i 5Stelle appena arrivati erano troppo acerbi, settari e sospettosi per avviare un dialogo con lui. E lui non osò andare sino in fondo rinunciando a una premiership che non poteva rivendicare, avendo gli stessi voti del M5S. Così la sua proposta di un governo di minoranza Pd-Sel con l’appoggio esterno M5S naufragò in streaming. L’occasione si ripropose un mese dopo con la candidatura di Rodotà al Colle, nata dal web, sposata da M5S e Sel e proposta da Grillo in vista di un’alleanza organica di governo, ma s’infranse sulla gattopardesca reazione dei poteri marci: meglio imbalsamare il sistema anziché rischiare di cambiarlo. Fuori Bersani, Napolitano-bis e altro governo Pd&FI. Renzi fu il degno coronamento dell’Operazione Gattopardo: siccome Letta non ce la faceva, si puntò su un outsider tanto giovane quanto finto.

Che infatti gettò subito la maschera, rinnegando la rottamazione con una brutale restaurazione agli ordini di Napolitano&B. Un progetto talmente smaccato che – dopo la fugace ubriacatura delle Europee 2014 – lo capì persino la maggioranza degli italiani, bocciandolo a ogni occasione: Amministrative, referendum costituzionale, Politiche. Chi un tempo era di sinistra fuggiva verso i 5Stelle, chi era di destra verso la Lega. Per convinzione o per mancanza di meglio. Ma sempre nella speranza che lorsignori capissero un concetto molto semplice: la voglia di cambiare. Quelli però non capivano e, barricati nelle loro stanze, continuavano a inventare parole, analisi, alchimie, ammucchiate sempre più astruse per esorcizzare l’urlo che saliva dal Paese e rinviare la resa dei conti. L’ultima trovata fu il Rosatellum: Renzi&B. non potevano vincere, dunque sei mesi prima del voto s’inventarono un sistema elettorale per far perdere il M5S, garantirsi un Parlamento di yesmen, creare finte coalizioni da sciogliere la sera stessa del voto e rendere inevitabile l’ennesimo governo Pd&FI. Era tutto pronto. Premier (Gentiloni). Ministri (Maroni, sceso apposta dal treno Lombardia). Supporter nazionali e internazionali.

E giornaloni a bombardare sulla “stabilità” e il “voto utile” contro i “populisti”, “incompetenti”, forse “fascisti” e certamente ladri (la decina di pentastellati che non avevano donato parte dello stipendio). Ma gli elettori scompaginarono i giochi, premiando M5S e Lega, falcidiando Pd e FI, cioè facendo mancare i numeri all’ammucchiata: il vero voto utile per cambiare le cose. Il Fatto ribadì quel che aveva sempre sostenuto: i 5Stelle si sono sempre mossi, fin dalla nascita (anzi da prima: da quando Grillo chiese la tessera del Pd per correre da segretario o almeno offrirgli il suo programma), nel campo ideale del centrosinistra con le loro battaglie ambientaliste, legalitarie e sociali, anche se – da buon movimento post-ideologico – intercettano pure voti di centrodestra, specialmente nei ceti esclusi e bisognosi di protezione. Dunque il loro interlocutore naturale è un nuovo centrosinistra che riparta da zero, dalle radici dimenticate, come Corbyn e Mélenchon. Non certo un centrodestra che, finché esisterà B., resterà prigioniero dei suoi miliardi, delle sue tv, dei suoi ricatti, dei suoi affari e malaffari. Il nostro non era e non è un auspicio (non abbiamo nulla da guadagnare né da perdere da un governo M5S-Pd o M5S- Lega o dalle urne-bis). Era ed è una constatazione, anche piuttosto facile. I 5Stelle, al di là dell’accordo istituzionale Di Maio-Salvini per le presidenze delle Camere al partito vincitore e alla coalizione vincitrice, hanno sempre guardato al centrosinistra.

Di Maio ha proposto una squadra di ministri di quell’area e nessuno di centrodestra. Ha annunciato che, senza maggioranza assoluta, si sarebbe rivolto agli altri partiti per cercare intese sui temi. Ha presentato un programma compatibile con i valori (abbandonati) del centrosinistra. Dopo il 4 marzo ha chiesto un confronto al reggente del Pd, Martina e lanciato a Salvini la sfida impossibile di sganciarsi da B.. Ha definito in tv il Pd “interlocutore privilegiato” ed elogiato i ministri Minniti, Martina e financo Franceschini. Ha aperto il dialogo col Pd nel Lazio per far partire la giunta Zingaretti, priva di maggioranza in consiglio. Dal Quirinale si è appellato a tutto il Pd, renziani inclusi. E ieri ha annunciato su Repubblica che “la guerra è finita”: le critiche e le differenze fra M5S e Pd restano, ma col proporzionale le forze meno lontane devono provare almeno a parlarsi e tentare un contratto di governo fondato non sulla simpatia personale, ma su alcune cose urgenti da fare. Sul modello tedesco (la Merkel, arrivata prima, fa il premier, ma con ministri di peso dell’Spd). Martina ha apprezzato l’autocritica, ma trovato ambigua la proposta sui temi. Come se quella del Pd fosse chiara e l’autocritica toccasse solo ai vincitori, non agli sconfitti. Riuscirà il nostro eroe a liberarsi del guinzaglio renziano e a prendersi almeno un caffè con Di Maio per andare a vedere se è tutto un bluff o se si può fare qualcosa di utile? Chi ha sostenuto due governi con B. e due con Alfano e Verdini, ha digerito una riforma costituzionale e due leggi elettorali scritte a quattro mani col pregiudicato, ce la può fare.

Lascia un commento